Dal Mondo
Si dimette e lascia una mail con “non mi mancherete”
L’azienda lo querela ma i giudici gli danno ragione
Come tutte le relazioni che finiscono, anche quelle lavorative possono chiudersi o con una stretta di mano o con molto rancore.
Un operaio ferrarese di 45 anni che ha rassegnato le proprie dimissioni, prima di andarsene ha inviato una email di saluto indirizzata a tutti.
Un centinaio di persone tra presidente, vicepresidente, dipendenti e collaboratori, ha ricevuto una mail con oggetto saluti, in cui l’operaio elenca con toni piuttosto duri tutto ciò che non va nell’azienda, e si congeda alla fine con un laconico “non mi mancherete”, seguito da un incoraggiamento rivolto ai suoi ex colleghi:
Ricordo a chi come me è stanco che l’unico modo per trovare altro è cercare e non demordere
I suoi ex capi non l’hanno presa benissimo e hanno sporto querela per diffamazione aggravata.
La sorpresa però arriva davanti al giudice che, tra l’accusa di aver leso la reputazione dell’azienda e la tesi della difesa che sostiene che l’operaio ha esercitato un diritto costituzionale (quello della critica), decide di dare ragione a quest’ultima lettura.
Nessuna intenzione denigratoria mirata, insomma, nessun nome, nessuna accusa circostanziata di reato, bensì solo una valutazione severa dell’organizzazione del lavoro.
In parole povere: quello che ha scritto l’operaio nelle sue critiche, non diffama nessuno ma è solo espressione personale non rivolta a singole persone.
In Italia la legge dice che la critica è legittima quanto rispetta tre requisiti: la pertinenza dell’argomento, la continenza del linguaggio e un minimo di base fattuale.
Questo significa che è possibile criticare ad esempio le condizioni di lavoro, non è consentito insultare, offendere o attribuire giudizi infamanti privi di un riscontro oggettivo, e si può usare un linguaggio anche duro ma che non deve diventare attacco personale.
Quando si fanno nomi e cognomi, per evitare di essere accusati di diffamazione, è bene avere prove verificabili di quanto sostenuto e bisogna tassativamente evitare di pubblicare tutto sui social.
Il giudice quindi, applicando questi criteri, ha stabilito che l’email non era diffamatoria ma restava sul piano delle criticità rilevate dal dimissionario, che il riferimento a carenze di attrezzature e di formazione interna rientrava nell’interesse collettivo del buon funzionamento dei reparti, e che la genericità delle espressioni, prive di riferimenti personali, conferma un’assenza di volontà denigratoria.
Il 45enne è stato così assolto, dimostrando che parlare dei problemi è possibile, ma bisogna farlo nei giusti toni e nelle opportune sedi.